È ormai storia vecchia l’esito del referendum, votato nel 1993, in cui gli italiani decretarono inequivocabilmente (si sperava) di essere contrari al finanziamento pubblico ai partiti. Erano anni in cui il capro espiatorio assolveva al compito di nutrire la fame di giustizia del popolo italiano, al culmine del periodo di “Tangentopoli”. In quest’ottica risulta facile comprendere lo stato d’animo che spinse il 90,3% dei votanti a mettere un freno alle logiche spartitorie che avevano caratterizzato la Prima Repubblica. Eppure il BOOM della volontà popolare nemmeno allora era sufficientemente percepibile. Infatti, non finì nemmeno il 1993 che a dicembre, con la legge n. 515, il Parlamento aggiornò la legge preesistente sul contributo per le spese elettorali. Evidentemente non era abbastanza chiara quale fosse l’indicazione del popolo italiano, tanto che la legge n. 2 del gennaio 1997, introducendo la possibilità da parte dei contribuenti di destinare ai partiti il 4 per mille dell’IRPEF all’atto della presentazione della dichiarazione dei redditi, di fatto reintrodusse il finanziamento pubblico ai partiti. A nulla valse il ricorso del Comitato promotore del referendum del 1993, perché la Corte Costituzionale negò che venisse depositato. Il messaggio non fu recepito nemmeno con la scarsa adesione a questo metodo da parte dei cittadini. Trascorsero ancora due anni e nel 1999, approvando la legge n. 157 del 3 giugno, i partiti, poverini, che non avevano ancora compreso in fondo cosa volessero dire gli italiani nel 1993, slegarono il rimborso elettorale ai rendiconti delle spese effettivamente sostenute nel corso delle campagne elettorali, rendendo definitivamente operativa una legge che finanzia la politica con i soldi pubblici. Mai sazi, nel 2002 (legge n. 156), trasformarono in annuale il fondo e abbassarono dal 4 all’1% il quorum per ottenere il rimborso elettorale. Un percorso il cui ultimo step è stato l’approvazione della legge n. 51 del 23 febbraio 2006, con la quale l’erogazione è dovuta per tutti e cinque gli anni di legislatura, indipendentemente dalla sua durata effettiva.
Lungi da noi ritenere che si tratti di una vera e propria prevaricazione del volere popolare, siamo sicuri si sia sempre e solo trattato di una futile incomprensione che aspetta ancora di essere sanata. Del resto, i casi dei due tesorieri della Margherita e della Lega Nord, rispettivamente gli illustri dottori Lusi e Belsito, non sono affatto da associare alla perversione delle leggi succitate. Risulterebbe inoltre ingrato nei confronti della nostra attuale classe politica obiettare il lodevole tentativo di ridimensionare il fenomeno con la recentissima legge n. 96 dello scorso 6 luglio. Salvo poi riscontrare, già nel titolo, un’affermazione che non richiede nemmeno l’esercizio semantico del passato, quello che travestiva il finanziamento pubblico in rimborso elettorale, infatti: «Norme in materia di riduzione dei contributi pubblici in favore dei partiti e dei movimenti politici…». Siamo pronti a scommettere che con l’introduzione del nuovo principio – un contributo annuo volto a finanziare l’attività politica, pari a 0,50 euro per ogni euro che essi abbiano ricevuto a titolo di quote associative e di erogazioni liberali annuali da parte di persone fisiche o enti – i tesseramenti ai partiti raggiungeranno cifre record. Hai visto mai che lo scandalo delle tessere fantasma possa essere stato il preludio della corsa alle sottoscrizioni.
Un altro messaggio che non passa proprio è che il MoVimento 5 Stelle rifiuta ogni tipo di finanziamento pubblico e che, quindi, non serve regolamentare le assegnazioni in modo tale che lo stesso ne sia escluso (vedi art. 5 della predetta legge). Nell’arduo tentativo di farci capire dichiariamo qui, ora, di essere pronti a studiare qualsivoglia lingua al sol scopo di assecondare i gusti dei nostri parlamentari e gridare per l’ennesima volta che